Arriva un momento nella vita di un musicista in cui l’evoluzione naturale della propria arte sale un gradino più in alto, dove la ricercatezza, lo stile, la sperimentazione elevano la propria vocazione e alle proprie opere si aggiunge così un tassello importante. E’ il caso di Giovanni Cafaro e della sua ultima fatica “Voyage”, nel quale non solo il verbo del suo sax ha un sound decisamente chiaro, pulito, deciso e vellutato ma il repertorio jazz prende spunto dagli autori più disparati (dal classico al moderno) servendosi di uno sfondo di orchestrazione d’archi che dà un tocco di pregevolezza al tutto, senza essere un surplus o un feticcio snob (come spesso accade) ma, anzi, sublimando ed enfatizzando quelle che sono le dinamiche interne del concetto jazzistico di fondo. Gli arrangiamenti sono ad opera di Antonio Piacentino che riesce ad ottenere un background consapevole ed emozionale non da poco, con il giusto dosaggio della commistione melodica e armonica e ritagliando gli spazi migliori all’interno dei brani. Niente tempi morti o banalità, solo contrappunti e tappeti orchestrali che spesso rammentano colonne sonore del cinema noir o delle grandi produzioni hollywoodiane.
Dal suo conto Giovanni Cafaro dimostra forte passionalità e carattere, nonché una precisa ed efficace tecnica nel linguaggio be-bop che trova pochi eguali, passando tra lirismi tipici del sax soprano e robustezza e forza espressiva del sax tenore. Diplomato in clarinetto e presente nelle migliori master class di Jazz (Riccardo Fassi, Jerry Bergonzi, Gary Smulyan, Steve Grossman tra gli altri), Giovanni palesa la sua capacità di ottenere un suono coerente con lo strumento e con lo stile, non tralasciando l’aspetto soggettivo e le pulsioni filtrate attraverso una serie di brani che non hanno un necessario filo conduttore.
Da standards come “Sometime Ago”, “Just Friends”, “Imagination”, “Laura” e “Why Do I Love You?” a brani solitamente meno facili da scovare nei repertori classici come “Voyage” di Kenny Barron, “Opus the Funk” di Horace Silver, “Home at Last” di Hank Mobley e “My Girl Shirl” di Donald Bird. Dimostrazione del fatto che non è un banale collage per mettere insieme un disco ma il frutto interpretativo delle proprie inclinazioni musicali, degli affetti sonori che sempre accompagnano un musicista nella sua vita i quali sono esaltati da arrangiamenti, fraseggi e ristrutturazioni davvero fascinose.
A completare il tutto la presenza di musicisti non meno dotati, come Francesco Palmitessa alla chitarra, rimarchevole solista che riesce a coniugare lo swing più classico alla modernità facendo di lui non solo un chitarrista completo, ma anche latore di un gusto intrigante e personalissimo. Completano la sezione ritmica Marco Contardi al piano, Giuseppe Venezia al contrabbasso, Giovanni Scasciamacchia alla batteria. Tutti solisti e accompagnatori dotati di grande stoffa professionale e peculiarità stilistiche del jazz, capaci di tenere il passo con le idee e le molteplici associazioni di stili che sono presenti in questo disco, ascolto obbligato per chi intenda assaporare qualcosa di veramente fresco e godibile in ogni attimo dei 47:28 minuti di grande jazz proposti. Doveroso anche citare il lavoro ineccepibile sia per quanto riguarda l’esecuzione che l’interpretazione degli archi: Marcello de Francesco e Gennaro Palmiotto al violino, Angelo De Cosimo alla viola e Michela Celozzi al violoncello.